Sono quattordici le montagne più alte al mondo, quelle che comunemente vengono chiamate gli “Ottomila” perché tutte superano gli ottomila metri di altitudine, e sono tutte concentrate nell’Asia centro-meridionale. Poterle scalare è il sogno di ogni alpinista. Pochi, però, sono quelli che ce l’hanno fatta e sono tornati per poterlo raccontare. Perché il bello o il brutto di queste montagne è che non basta salirci, bisogna anche essere in grado di ridiscenderle. Tuttavia, quando l’impresa rasenta i limiti dell’impossibile, con l’obiettivo di salirle in condizioni estreme come quelle invernali, l’evento ha davvero dell’incredibile.
Denis Urubko è stato il primo a compiere la salita invernale sul Makalu e sul Gasherbrum II, e ha aperto tre nuove vie su tre diversi Ottomila.
Il problema è che ridurre chi è Urubko ad un elenco puntato di successi incredibili, è limitato. Soprattutto senza dare un contorno a quello che quei successi hanno dato al mondo dell’alpinismo. E soprattutto, seguendo un’etica e morale molto strette nei confronti di ciò che per lui è l’alpinismo. No alle maschere con l’ossigeno, sì alle salite in stile alpino, sì all’apertura di nuove vie negli ottomila, sì ai tentativi estremi di salvataggio di alpinisti impossibilitati nella discesa, sì all’eventuale rinuncia per aspettare gli amici e compagni di cordata per lui importanti, in caso di necessità. Ma andiamo per grado.
Nato in un paesino russo nel cuore del Caucaso, si naturalizza polacco.
Attualmente, dispone della cittadinanza russa e polacca, anche se ha adottato come prima casa la zona del bergamasco, dove vive da alcuni anni con la famiglia.
La sua passione alpinistica affiorò tramite la lettura di alcune riviste alpinistiche. Dopo averne sfogliate diverse, decise di iscriversi al club alpino di Vladivostok. La scuola sovietica alpinistica prevede una selezione ed una permanenza molto più rigida di quel che ci si può immaginare. Attraverso la preparazione e l’esperienza che stava accumulando con la scuola alpinistica, iniziò a conoscere anche i pericoli della montagna: l’imprevedibilità delle condizioni, le valanghe, la sofferenza al freddo, il timore di poter perdere dei compagni, la rinuncia, il rischio nelle decisioni. Tutte esperienze ed insegnamenti che lo segnarono molto, conferendogli consapevolezza e al contempo una sorta di timore e reverenza per i monti, come luoghi pericolosi che possono dare tanto e togliere tanto. Son proprio “quei luoghi” ed in particolare “l’azione” che Urubko svolge in tale luogo, che lo fa sentire vivo e nel posto giusto.
Non mi piacciono le montagne. Ho perso tanti amici lì. Mi piace l’azione. E sono libero di decidere come esercitare la mia libertà.
Riuscì, non senza fatica, ad arruolarsi in un gruppo sportivo militare, così da potersi dedicare esclusivamente all’alpinismo. Quegli anni furono particolarmente duri, segnati da una situazione economica instabile e da allenamenti pesanti, senza avere mai la certezza di un davvero futuro migliore.
Simone Moro e Denis Urubko
Incontri che cambiano la vita e avvio verso l’alpinismo degli 8000
Dal 1999, anche attraverso la fortuna di conoscere alpinisti già affermati e lanciati nel mondo degli 8000 come Simone Moro, Urubko avvia una carriera alpinistica a tutto tondo. Lui stesso afferma in diverse interviste l’importanza che l’incontro con gli alpinisti conoscitori delle dinamiche di salita e adattamento degli 8000 del mondo. In particolare quello con Simone Moro gli ha rivoluzionato la vita.
Nel 1999 viene quindi contattato da Moro e Mario Curnis per compiere la salita dei cinque settemila dell’ex Unione Sovietica, impresa che Urubko riesce a completare in 42 giorni. L’impresa lo porta a vincere lo Snow Leopard: premio che viene conferito per l’ascensione dei cinque settemila e che inizia a renderlo conosciuto nell’ambiente alpinistico. È sempre Moro che lo introduce alla scalata sulle Alpi prima e poi in Himalaya con la salita dell’Everest nel 2000 che effettuano assieme. Non era mai uscito da Russia e Kazakistan prima d’ora.
In quegli anni inizia un periodo di intense spedizioni in Himalaya che lo portano a salire tre ottomila nel 2001, due nel 2002 e altri due nel 2003. In queste ascensioni non si limita alle vie normali ma sale anche per nuove vie, in prima invernale (Makalu) ed in stile alpino, senza mai far uso di ossigeno. Nel 2009 completa la salita dei quattordici ottomila senza ossigeno con l’apertura di una nuova via sulla parete sud-est del Cho Oyu con Boris Dedeshko, ascensione che gli ha valso il premio Piolet d’Or, trofeo che successivamente ha deciso di donare alla sezione di Bergamo del Club Alpino Italiano.
Il completamento, in pochi anni, dell’impresa dei quattordici ottomila non diminuisce il suo interesse per l’aria sottile, come talvolta capita ad alcuni alpinisti una volta raggiunto l’obiettivo. Nel 2010 apre in solitaria una variante dal Colle Sud del Lhotse e nel 2011 insieme all’amico (con cui in seguito ci saranno in realtà momenti di “discordia pubblica”) Simone Moro realizza la prima salita invernale del Gasherbrum II.
Salita del Gasherbrum II nel 2019, attraverso la via normale. Subito dopo la salita, assieme a Don Bowie partecipa attivamente al soccorso dell’alpinista Francesco Cassardo, caduto per 500 m mentre discendeva dalla vetta del Gasherbrum VII. Urubko è conosciuto anche per la sua generosità nell’affrontare vari e pericolosi soccorsi in quota. Particolarmente noto è l’episodio in cui ha aiutato nell’operazione di salvataggio di Elisabeth Revol sul Nanga Parbat, in condizioni estreme e con l’alpinista sotto shock a causa della perdita del compagno di cordata.
Dapprima affronta spedizioni militari, in seguito il suo “spirito libero” e fortemente virato ad un’etica che non accetta compromessi, come il suo sentire spedizioni invernali secondo il calendario stagionale (cioè a partire dal 21 dicembre, e cioè contrapposto alla tendenza di considerare invernali le spedizioni nel tardo marzo-aprile), Urubko decide di sviluppare solo progetti personali fortemente sentiti, secondo i suoi tempi ed il suo stile.
Il suo stile: l’alpinismo come disciplina sportiva
In alpinismo tutti usano la parola “primo”. Il primo in vetta di una nazionalità, il primo amputato, il più veloce, il più giovane o il più vecchio, il primo scalatore in cima con un dito nel naso… il primo scalatore con il dito sinistro nel naso. Voler essere “il primo” o “il più” sono espressioni dello sport. Per questo motivo possiamo definire l’alpinismo come uno sport. Come lo è la bici: qualcuno partecipa alle gare (fa sport), mentre ad altri piace fare solo giri culturali (e dicono che “non è sport”). I tempi passano, cambiano. Cento anni fa con i materiali che c’erano non era pensabile un tentativo senza ossigeno per Mallory e Irvine. Ma la tecnologia è avanzata e noi abbiamo orizzonti nuovi. Nel 1982 la spedizione sovietica ha scalato una via straordinaria sulla parete dell’Everest, un record incredibile! Erano con l’ossigeno quasi tutti e non ho nulla da dire, fu una storia eroica, grandissima! Ma un ragazzo, Vladimir Balyberdin, l’ha salito senza ossigeno, ha lavorato tanto in attacco e faticando più di tanti altri. Quest’avventura ha lasciato agli alpinisti sovietici una maggiore sensibilità.
1.Ossigeno in quota: è doping
La comunità alpinistica si divide in merito. Urubko sta dalla parte di chi vede l’alpinismo come una vera e propria disciplina sportiva; di conseguenza qualsiasi “aiuto” esterno, come l’uso dell’ossigeno in quota rende la prestazione sportiva inaccettabile.
Urubko ha in seguito affermato che può comprendere la necessità d’uso dell’ossigeno in quota ma al contempo non rispetta chi ne fa uso. Per lui, la questione è nera o bianca, e chi vuole essere un vero e forte alpinista non deve far uso di doping in quota, come in tutti gli altri sport.
Denis Urubko che lavora in parete durante l’ascensione invernale al K2.
2.Ottomila, stile alpino, piccola squadra e vie nuove
Nel 2009 avvenne la “consacrazione ufficiale”: Urubko completò la salita dei quattordici ottomila senza ossigeno. A questo punto, ora che disponeva maggiormente di sponsorizzazioni e di conseguenza di poter scegliere in autonomia le proprie nuove vie da salire, si dedicò proprio a ciò che tanto voleva. Linee di salita da lui individuate e perseguite con pochi amici compagni di cordata, prime vie, possibilmente invernali, e sempre senza ossigeno.
Nel 2010 apre una nuova variante dal Colle Sud nel Lhotse aperta in solitaria, l’anno seguente fa la prima invernale con Simone Moro e Cory Richards. Nel 2012 e 2013 ci sono due tentativi falliti di apertura di prime vie, la cui seconda è fallita in seguito alla morte del compagno Alexey Bolotov. Il 2014 è segnato dalla salita attraverso la parete nord del
Kangchenjunga, tra le più rilevanti.
Sembra un nuovo “inizio”, il quale però dura relativamente poco, in quanto nel 2018 spunta una lettera pubblica e molto diretta, in cui esprime la volontà di un ritiro dalla scena alpinistica internazionale, accusando molti alpinisti di uno stile poco “etico” in quota e di essere degli egoisti.
Denis Urubko durante la salita invernale al Makalu
La lettera del ritiro
Non ha mezzi termini, non parla con metafore e allusioni, risulta coinciso, diretto e di poca diplomazia. Urubko scrive questa lettera, in cui annuncia un prossimo ritiro dalla scena, per diversi motivi “naturali” (come gli impegni familiari) ed altri meno piacevoli, come discordie con compagni di cordata. Chiude il rapporto con il suo compagno di scalate, Simone Moro, definendolo una “zavorra”. Critica molti suoi colleghi di essere degli irresponsabili e di speculare su di lui per mettersi in mostra.
“Non voglio spendere ancora tre mesi in compagnia di perdenti, bugiardi, deboli e pigri.
Ho passato 2/3 mesi in spedizione con partner che si sono rivelati delle zavorre. Simone Moro qualche volta, la maggior parte della squadra polacca nel 2018 e Don durante questo inverno. Essere delle brave persone va bene, ma non è una qualità sufficiente per arrivare in vetta. Ho dovuto rinunciare molte volte a causa dell’irresponsabilità delle altre persone! Ora ho deciso di dedicare il mio tempo ad altro.”
Urubko, come sempre, rifuggia nella sua filosofia ed etica più stretta, tracciando una linea irreversibile laddove non intende più tornare, se non nella giusta compagnia. Sa comunque di aver lasciato un segno positivo nell’ambiente alpinistico e di aver spostato l’asticella del “possibilmente umano” un po’ più in là. Afferma, infine, di voler dedicare maggiori attenzioni all’affetto dei cari. Esce dalla scena soddisfatto, senza rimorsi.
I miei “Shine on you crazy diamonds” sono le cinque nuove vie aperte in stile alpino sugli 8000. Ho realizzato salite in velocità e battuto record su montagne che vanno dai 4000m fino oltre gli 8000m. Ho salito 8000 in invernale. Ho scalato vie incredibilmente tecniche su roccia tra i 2000m e i 7000m in giro per il mondo, come il Kush-Kaya, lo Ushba, il Peak Pobeda, il Kali-Himal. Sono abbastanza soddisfatto di tutto ciò.
Denis Urubko, sponsor del brand italiano CAMP, in parete con il casco Speed Comp omologato per alpinismo e scialpinismo, i dadi Pro Nut ed i leggerissimi e insostituibili Nano 22 Rackpack.
Gennaio 2022: il forse ritorno in alta quota?
A gennaio 2022 Urubko si è diretto in Pakistan con alpinisti e amici russi Anton Kravchenko, Andrew Shlyapnikov e Max Berngard per scalare il Khosar Gang (6,046m) dalla via normale, dopo 2 anni di stop e di uscita dalla scena pubblica. La via in questione non è particolarmente tecnica o difficile: lui stesso l’ha ritratta come “una vetta da trekking”. Ciò che, in realtà, colpisce e stravolge non è tanto la scelta di un ritorno progressivo, quanto più la sua seguente affermazione. Era da anni che se ne parlava: Urubko vuole battere il record di salita delle 26 vette più alte al mondo di Juanito Oiarzabal. Come dice lui, “combinando l’obiettivo con alcune altre opzioni”: presumibilmente con nuove vie da tracciare.
Insomma, siamo pronti a sognare ancora una volta con i progetti del grande alpinista?